Preliminarmente desidero anzitutto sottolineare che non sono né storico dell’Antico Egitto né tantomeno studioso delle religioni. Mi interesso oramai da diversi anni di linguistica dell’oriente antico ed egizia in particolare. Il tema del presente scritto consiste pertanto nell’esternare alcune mie personali considerazioni frutto delle traduzioni – ab origine tese come detto ad altre finalità – da me elaborate ed afferenti soprattutto la letteratura funeraria e religiosa egizia. Impressioni scaturenti da analisi scientifica e pertanto scevre da qualsiasi condizionamento dogmatico o di fede. A prescindere dall’alto senso di etica e direi di profonda saggezza che traspaiono da questi antichi reperti, conoscenze ed impressioni peraltro in larga parte scontate perché ben conosciute anche al di fuori dell’ambiente specialistico, la cosa che maggiormente mi colpisce – in maniera direi inquietante – è la forte somiglianza che ho potuto riscontare di prima mano tra la letteratura religiosa egizia e le Sacre Scritture sia del Vecchio che del Nuovo Testamento. Ho usato il termine inquietante perché al reddere ad rationem parrebbe che i principi sui quali si fondano le tradizioni e le credenze religiose giudeo-cristiane, ma soprattutto le cristiane per quanto dirò, sembrano esser il naturale proseguimento dei culti e credenze dell’Antico Egitto. Il disconoscere queste mie impressioni, almeno sul piano strettamente storico-scientifico, diventa io credo cosa difficile. Questo breve scritto ha la finalità di focalizzare – sulla base delle ricerche da me condotte nel corso degli anni – gli aspetti più salienti sintetizzati in cinque punti fondamentali di assonanza riscontrati tra la cultualità e le credenze egizie con taluni principi afferenti le Sacre Scritture.
I – Inno ad Aton e Salmo 104
Un elemento di estrema importanza, perché basato su fonti certe, che avalla la possibilità di collegamenti esistenti tra la religione amarniana e le Sacre Scritture è la straordinaria “similitudine” esistente tra alcuni frammenti dell’Inno ad Aton [1] ed il Salmo 104 del Vecchio Testamento. Inno ad Aton: “…I leoni escono dalle tane, i serpenti mordono, il buio domina il silenzio, perché colui che li ha creati, è andato a riposare ad Occidente…”. Il Salmo 104: “Se adduci la tenebra e si fa notte, sbucan tutte le fiere della selva, e i leoncelli ruggenti alla preda, per chiedere da Dio il loro cibo. Si ritraggono al sorgere del sole…”. Addurre un mero caso alla similitudine esistente tra i due scritti appare invero, rifacendoci al calcolo probabilistico fondato sul “tutto è possibile”, eventualità estremamente remota. Queste “assonanze” costituiscono uno dei principali fondamenti su cui poggia la ipotesi di derivazione della religione ebraica dal credo amarniano che andrò ad esporre nel punto successivo.
II – Atonismo e monoteismo d’Israele
[2] E’ noto che sul finire della XVIII Dinastia il faraone Amenophis IV, figlio di Amenophis III e della Regina Tiye [3] introdusse durante il suo regno il credo in un unico Dio, il disco solare di Aton (trsl. jtn), con relativa soppressione di tutte le altre divinità del pantheon egizio. All’atto di questa vera rivoluzione in campo religioso, le cui radici per la verità risalgono agli ultimi anni del regno del padre Amenophis III, il sovrano cambiò il nome in Akhenaton (la Forza vitale di Aton), trasferendo la capitale e centro del culto nella nuova città di Akhetaton (l’Orizzonte di Aton), presso l’attuale Tell el Amarna sulla riva del Nilo, all’incirca a mezza strada tra Aswan e l’odierna Cairo. Questa eresia durò pochi anni, forse sei o sette. Sotto la forte influenza del clero preesistente, soprattutto quello ammoniano, ma anche forse sotto la spinta della stessa popolazione che mal digerì la soppressione o quasi del culto dei morti da parte del faraone del sole [4], la rivoluzione amarniana si dissolse nel nulla e tutto tornò come prima. Nella cronologia ufficiale dei sovrani egizi il nome di Akhenaton fu addirittura soppresso come eretico. I pochi seguaci del novello credo monoteista che non vollero riabbracciare le vecchie credenze furono duramente perseguitati. Lo stesso Tuth-ankh-Aton (probabile nipote del faraone e futuro re) dovette cambiare precipitosamente il suo nome in Tut-ankh-Amun ed è con questo appellativo che esso è diventato celebre dopo oltre 3300 anni. Del faraone del Sole e della sua bellissima consorte Nefertiti non se ne seppe più nulla. Oblìo totale che è tuttora oggetto di infinite ipotesi da parte degli studiosi. Questi sono i fatti storici certi riflettenti l’epoca amarniana ed è su questa base che ritengo opportuno formulare alcune considerazioni. La madre di Akhenaton era la regina Tiye e di costei poco si sa, ma pare accertato che da parte di padre fosse israelita [5]. Sulla base di questa ipotesi abbastanza attendibile Akhenaton sarebbe per metà di origine israelita. Dopo il matrimonio con la regina Tiye, Amenophis III fece erigere a Zarw –l’attuale Qantara Est sul Canale di Suez – una grande fortezza che serviva anche come località amena, in pratica un Sans Souci del 1300 BCE. Zarw è una località adiacente alla biblica Goshen ove a quel tempo vi erano insediamenti di tribù israelite, peraltro attestate anche dalle Sacre Scritture. L’immigrazione degli israeliti in terra d’Egitto fu probabilmente causata dalla forte siccità che colpì le zone del Retenu (attuale Palestina, Siria, Libano) abitate da popolazioni semitiche occidentali. Un processo di desertificazione che iniziò diversi secoli prima e che in pratica può definirsi tuttora in atto in quelle zone. I “popoli della sabbia” o “habirw”, come furono appellati da Tuthmosis III, vissero diverso tempo proprio in concomitanza con i regni amenofidi in quelle fertili zone, come detto vicini a Zarw. La regina Tiye – forse per far stare a contatto il proprio figlio con le genti del suo popolo stanziate nel Goshen – inviò il giovane figlio per diversi anni a Zarw ove vi trascorse buona parte della fanciullezza e adolescenza. Appare molto verosimile che il futuro faraone del sole, di probabile discendenza israelita, abbia attinto molto delle usanze e delle credenze da quelle tribù. Non si hanno certamente degli elementi tali da poter affermare in maniera attendibile se sia stato Akhenaton ad influenzare le tribù d’Israele o viceversa; personalmente ritengo molto improbabile la seconda ipotesi ma non è cosa importante ai fini della presente ricerca dare risposta al riguardo. Quel che appare al contrario estremamente plausibile e pertinente al caso di che trattasi, è il fatto che alcuni eventi storici certi succedutisi all’indomani della caduta in disgrazia di Akhenaton, sono in grado di poter dar credito ad un fatto estremamente possibile e cioè l’adesione da parte delle tribù d’Israele stanziate in terra d’Egitto ad un credo monoteista imposto da Akhenaton in tutto l’Egitto. Mi chiedo: com’è possibile che le tribù d’Israele stanziate per diversi anni nel Goshen e dimoranti in pace ed in condizioni di assoluto benessere, come del resto attestato dalle stesse Sacre Scritture [6], all’improvviso sul nascere della XIX Dinastia furono rese in schiavitù in maniera oserei dire feroce. La edificazione forzata di Ramses e Pithom [7] da parte dei Popoli della Sabbia docet, non vi è commento. Perché questo improvviso voltafaccia dei sovrani contro tribù che non fecero mai razzie od altri atti di violenze mai attestati in nessuna iconografia o reperti del tempo? All’indomani dell’eresia akhetoniana coloro che restarono – per quanto detto invero molto pochi – nel credo di Amarna furono ferocemente perseguitati. E’ abbastanza plausibile ritenere pertanto che furono proprio gli habiru del Goshen a voler conservare il credo amarniano imperniato nel novello concetto di monoteismo. Da qui l’esodo nella Terra Promessa con la figura di Moses (personaggio con ogni probabilità egizio – Moses è parola egizia , forse un sacerdote della defenestrata religione). Resta al contrario da non poter considerare attendibile la identificazione proposta da taluni autori [8] di Akhenaton con il Mosè biblico. L’esodo risale ad epoca ramesside, probabilmente durante il lungo regno di Ramses il Grande, quindi vi è un salto epocale valutabile da uno a due secoli circa. L’atonismo fu portato presumibilmente nel Sinai all’indomani dell’Esodo ma con alcune possibili, prevedibili, oserei dire comprensibili modifiche riportate nelle Sacre Scritture finalizzate nel dare maggior risalto ad una cultualità del Popolo d’Israele di impronta nazionale. L’atonismo si trasformò quindi in Yahwismo, ove Jahweh assurse dal pantheon delle popolazioni cananee [9] a Unico Dio dei popoli d’Israele. A ben vedere però gli ultimi frammenti del culto atoniano non scomparvero del tutto. Esso restò nella celebre esclamazione che tuttoggi ogni ebreo ben conosce “Schemà Israel Adonis Elohenu” (Ascolta o Israele il nostro Signore Iddio !) [10] ove Elohenu significa Dio e Adonai sta per “Signore”. In pratica escamotages per non nominare invano il Dio d’Israele YHWH [11]. L’etimo di Adonai io credo non abbia motivo di esser commentato esso si rifà con ogni probabilità alla parola Aton, termine che in Grecia dette origine poi alla parola Adone.
Le ipotesi da me descritte sono certamente pure ipotesi ma esse però si articolano intorno a fatti storici difficilmente oppugnabili. L’orientamento di molti studiosi che hanno affrontato tale problematica non si discosta di molto dalle “mie impressioni” al riguardo e ciò naturalmente mi da conforto su quanto da me esposto.
III – Il Libro dei Morti
Il Libro dei Morti (Book of the Dead) [12] consta di una raccolta di preghiere / incantesimi (spells) – chiamate dagli studiosi capitoli o formule – che, a partire dal Nuovo Regno (1580 – 1085 BCE), venivano inserite all’interno dei sarcofagi dei defunti. Consistono in rotoli di papiro che venivano posti in genere sotto il capo della mummia ed avevano la funzione fondamentale di aiutare i defunti a vivere nell’oltretomba. Trattavasi di “invocazioni” / “incantesimi” che il defunto indirizzava agli dei dell’ade per conquistare la vita eterna ed evitare così di esser divorato dal mostro Amemelet, l’equivalente del nostro inferno. Erano scritti generalmente in corsivo geroglifico od anche in jeratico monumentale, la cui lunghezza poteva raggiungere molti metri. L’ampiezza degli scritti e qualità delle “vignette” [13] dipendevano dalle possibilità economiche della famiglia del defunto. Il minimo indispensabile che conteneva il corredo di una tomba, anche la più povera, era il capitolo XVII da cui prende il nome l’intera raccolta “The Chapters of Coming Forth by day” (in pratica I capitoli per i giorni che verranno dopo la morte) ed il capitolo CXXV, comunemente ed impropriamente appellato “La confessione negativa”, anche se tale ne è una parte, seppur forse la più significativa. Il primo studioso che catalogò questi reperti nel 1842 – 1843, la cosìdetta “Edizione Saidica”, fu l’egittologo tedesco Karl Richard Lepsius (1810 – 1884) in un numero complessivo di 165 capitoli [14], traendoli dal Papiro di Jufankh risalente ad epoca tarda (Museo Egizio di Torino). Successivamente l’egittologo svizzero Edouard Naville (1844 – 1926) ne ampliò la catalogazione portandola a 168 capitoli (cfr. “Das Aegyptischen Todtenbuch der XVIII bis XX Dinastie”, ed. A. Acher & Co. Berlin 1886). Sir Ernest Alfred Thompson Wallis Budge (1857-1934), egittologo inglese e Conservatore delle antichità Egizie ed Assire al British Museum di Londra a fine ottocento raccolse estrapolandoli da una serie di papiri, i vari Capitoli per un numero totale di 190 oltre a degli inni introduttivi che si rilevano in alcuni di essi. Le formule contenute nel libro dei morti in linea di massima non sono altro che una ripetizione dei cosidetti Testi delle Piramidi (Pyramidentexte – interpretati e studiati in primis dal grande egittologo tedesco Kurt Sethe a fine ottocento, inizi novecento) risalenti al Vecchio Regno (V Dinastia). La unica sostanziale differenza consiste nel fatto che i Testi delle Piramidi erano prerogativa esclusiva dei sovrani e delle famiglie reali mentre i Capitoli del Libro dei Morti erano estesi e applicabili a chiunque, quindi direi un processo di “democratizzazione” in seno alla società dell’epoca. Fatte queste debite premesse mi soffermerò brevemente, perché pertinente alla presente ricerca, sul Capitolo CXXV uno dei più importanti e fondamentali dell’intera raccolta. In esso viene descritto in pratica lo svolgimento di un vero e proprio processo al quale deve sottoporsi il defunto al cospetto del dio dell’Oltretomba ma anche della Resurrezione Osiride. Processo che vede, come in ogni giudizio, un Giudice Supremo e inappellabile Osiride, un cancelliere il dio Thoth, il dio della Sapienza e della Scrittura che annota minuziosamente tutto lo svolgimento dell’iter processuale, la dea dell’ordine e della giustizia Maat avente la funzione sostanziale di controllare la correttezza dello svolgimento del processo stesso ed infine 42 divinità – demoni (Totenrichter) che svolgono direi la funzione di pubblica accusa. Il defunto deve, rivolgendosi e salutando uno per uno i 42 giudici “accusatori” – ciascuno esperto in un certo peccato – dichiarare (Confessione Negativa) di non aver commesso quel determinato peccato. Al termine la dea Maat, figlia di Osiride, pone su uno dei due piatti di una bilancia la piuma che ha sul capo, simbolo di “giustizia” / “rettitudine”, mentre sull’altro viene posto il cuore (jb) del defunto [15]. Se cuore e piuma bilanciano perfettamente il defunto conquista – per il tramite indiretto del placet di Osiride – l’eternità. Se al contrario il cuore pesa di più della piuma egli è considerato colpevole di peccati compiuti in vita e subito ingoiato dalle fauci del mostro Amemelek, un ibrido dal corpo di ippopotamo e testa di coccodrillo scomparendo così per sempre [16]. Riporto quì di seguito alcuni stralci delle implorazioni e confessioni che il defunto rivolge ai 42 giudici, tra le più significative al nostro caso.
Dal Papiro di Nu (epoca XV-XVI sec.ca. BCE, Nuovo Regno, rinvenuto a Kurna nel XIX Sec. – ora al British Museum rep. 10477) [17]
Io ho rimosso per te i peccati, né ho fatto del male agli uomini – non ho sperimentato esistenza priva di valori – non ho privato il povero dei suoi mezzi di sostentamento – non ho insultato l’inserviente – non ho causato afflizione – non ho fatto piangere – non ho copulato sodomizzando un ragazzo o essendo sodomizzato – non ho commesso atti impuri – non ho aggiunto ai pesi della bilancia – non ho sottratto il latte nella bocca dei bambini – non ho pescato pesci con esche dei loro stessi corpi – Non ho rubato – Io non ho ucciso uomini – io non ho disturbato – non ho detto falsità – non ho usato violenza ad alcuno – non ho fatto l’amore con la moglie di un uomo – non mi sono masturbato – non ho ingiuriato né nominato dio invano – non sono venuto alle mani – non ho insultato – non sono stato aggressivo – non ho usato violenza – non ho detto falsità – Non ho fatto cose contro chiunque, ho vissuto in rettitudine, sono pregno di giustizia – ho dato da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, dei vestiti agl’ignudi – un traghetto a chi ne era sprovvisto…. Salvatemi! – il mio petto (è) nella purezza, il mio posteriore (è) incorrotto, nel mio cuore vi (è) un lago di verità, né vi è altra parte di me priva di saggezza.
In questi passi stralciati da me a caso tra i più significativi e pertinenti all’argomento, relativi all’Intendente del Palazzo Nu, probabilmente scritti dallo stesso Nu prima della sua morte secondo gli studiosi, traspare un po’ tutta l’etica, la morale contenuta nelle Sacre Scritture del Vecchio Testamento, in particolare sono leggibili quasi tutti i passi inerenti ai Dieci Comandamenti dettati da Jahweh a Mosè sul Monte Sinai [18].
IV – Il Papiro di Leida, ovvero Dio Uno e Trino. [19]
Questo Papiro dal titolo “Il grande inno ad Amun-Ra” od anche semplicemente “Papiro di Leida” (De hymnen aan Amon-Ra van papyrus Leiden i-350), fu rinvenuto agli inizi dell’ottocento ed acquisito nel 1829 dal Rijksmuseum van Oudheden di Leiden ove trovasi tuttora. E’ scritto in jeratico risalente al IV sec. BCE ma il cui incipit risale al 1213 BCE (epoca ramesside). In esso, tra l’altro vi si legge: 3 pw nTrw nbw – jmn ra ptH nn 2nw.sn – jmn rn.f m jmn – ntf ra m Hr Dt.f ptH (traslitterazione dalla versione geroglifica dello Zandee) e la cui versione italiana è: “Tutti gli dei sono tre: Amun, Ra e Ptah, non vi è un secondo, egli è in Amun l’invisibile, in Ra la luce ed in Ptah il corpo”. La esegesi di tale scritto può così riassumersi: Tutti gli dei sono tre: Amun, Ra e Ptah, nessuno vi è oltre di loro; Egli (Dio al singolare) è presente nelle cose invisibili in Amun il dio del trascendente (rammento che il verbo jmn – 3ae-lit – in egiziano antico significa “nascondere”, quindi il nascosto, l’invisibile); egli (Dio) è presente nelle cose visibili in Ra (il dio sole ergo il dio dell’immanente); egli (Dio) è presente nel corpo di Ptah. Quest’ultima divinità ab initio plasmò il mondo sensibile ed extra-sensibile, in precedenza l’universo era sotto forma di chaos che gli egizi chiamavano nun ed esisteva ab aeterno. Rammento che la cosmogonia egizia concepiva uno stato di plasmazione non di creazione dell’universo. Tale cosmogonia è stata recepita da Platone allorché l’ateniese parla di acque primordiali, in uno stato confusionale chiamato chora, ante l’aggregazione nell’ordine delle cose compiuta dal demiurgo nell’Universo (cfr. Platone: Timèo). La figura di Ptah risulta essere di estremo interesse perché questa divinità, avendo plasmato il mondo fatto di cose visibili ed invisibili, assume la funzione di spirito che media le due forze divine dell’extrasensibile (Amun il dio dei cieli, dell’invisibile) e del sensibile (Ra il dio dell’immanenza, delle cose visibili). Quindi trattasi di una cosmogonia molto simile a quella cristiana concepita e definitivamente sancita nel Concilio di Nicea (IV Sec. AD). Dio unico ma trino nelle sue triplici configurazioni. Molti studiosi confermano queste mie impressioni e primo fra tutti il grande egittologo americano James P. Allen (cfr. J.P. Alle: Middle Egyptian – Cambridge Un. Press 1999) [20].
V – Culto isiaco e di Serapis
In epoca tolemaica l’Egitto, al pari del vicino oriente (Palestina – Siria – Libano), subì in maniera profonda l’influenza dell’ellenismo. Fenomeno che interessò non soltanto gli usi, i costumi di quelle popolazioni ma anche il tessuto religioso stesso. In Egitto si assiste ad un novello sincretismo tra le divinità ma dai connotati diversi da quelli che caratterizzarono l’epoca faraonica. Il numero delle divinità si riduce sensibilmente al punto tale da ascendere quasi esclusivamente alle sole divinità di Iside, Osiride ed il loro figlio Horus. In particolare Iside finisce de facto per accorpare tutti i requisiti del pantheon femminile egizio, in primis la dea Hathor. Il figlio Horus, in epoca faraonica dio del cielo, diventa il dio del silenzio e dell’agricoltura con il nome di Arpocrate [21]. Il culto isiaco all’epoca assunse i connotati fondamentali di culto delle “Arti magiche” diffondendosi rapidamente. Quanto alla figura di Osiride la stessa merita un particolare approfondimento. Essa viene legata alla figura del dio Api [22], che in epoca faraonica era considerato l’Araldo del dio Ptah di Menfi. Il sincretismo di queste due divinità da luogo alla figura di Serapis o Sarapis (in greco Σέραπις / Σάραπις), in pratica nome dovuto all’unione delle parole Osiride e Apis. Questa nuova cultualità pare che abbia un’origine sinopitica babilonese (in base all’interpretazione che ne da soprattutto Plutarco nella sua opera De Isis et Osiris), da qui anche il nome di Sinapis oltre che di Serapis [23]. Al di là dell’iconografia nuova che vede Serapis con immagine antropomorfa, munito di folta barba (manifestazione terrestre di Osiride) , si assiste ad un profondo mutamento in campo teologico. Non più il concetto di salvezza eterna imposto in primis dall’imbalsamazione del defunto, la stessa viene ora raggiunta mediante il sacrificio, la immolazione vera e propria, del dio Serapis il quale in pratica finisce per riscattare e garantire la salvezza dell’uomo. Da quì il culto del sacrificio del Toro, simbolismo che serve a tradurre in realtà questi principi. Il culto di Serapis – imposto da Tolomeo I – e di Iside si diffuse rapidamente in Egitto e successivamente in epoca romana in tutto l’Impero al punto tale da effettuare quasi “il sorpasso” del nascente cristianesimo. L’Imperatore Caligola addirittura fu seguace di questi culti e sancì due festività ufficiali il 5 marzo il cosìdetto “Navigium Isidis” e le Isia il 13 e 16 novembre con il famoso “Inventio Osiridis”, cerimonia evocante la resurrezione del corpo di Osiride. Frattanto nella iconografia si diffuse l’immagine della dea Iside che allatta il figlio Oro, iconografia “somigliante in modo impressionante” a quella della “Madonna col Bambino”. Questa immagine simbolo della gran dea Madre che nutre l’umanità, ebbe larghissima diffusione in tutto l’impero ed in particolare in Campania e Lazio e fu venerata anche dai non seguaci del culto isiaco. C’è da aggiungere che l’imperatore Adriano – II Sec. AD – pare abbia detto “gli adoratori di Serapide sono cristiani e quelli che sono devoti al dio Serapide chiamano se stessi vicari di Cristo”. Le affermazioni di Adriano non servono certamente a sancire un qualcosa che forse non corrisponde a verità, bisogna ricordare che ai suoi albori il cristianesimo era mal conosciuto e si faceva certamente una gran confusione di culti. Molti aspetti del culto isiaco e di Serapis così come descritto si avvicinano , in taluni casi quasi a collimare, con il sorgente cristianesimo. La figura storica di Gesù di Nazareth non ha certamente alcun collegamento con tali forme di religione ma appare verosimile che alcuni aspetti della cultualità e dell’iconografia isiaca e di Serapis siano stati assorbiti dal nascente cristianesimo.
Conclusioni
I vari argomenti da me trattati – tutti in apparenza indipendenti tra di loro – convergono in un punto fondamentale, peraltro suffragato dall’orientamento di illustri studiosi e che si può così sintetizzare: la religione egizia in epoca faraonica ed “ellenistica” può aver influenzato in maniera significativa la religione di Abramo e forse in maniera particolare il cristianesimo. Come detto in premessa non sono un esperto in storia delle religioni né dell’Antico Egitto e pertanto il presente scritto intende semplicemente esternare delle “impressioni” da me attinte nel corso degli anni man mano che, con dizionari e grammatiche alla mano, traducevo dall’egiziano antico e dal copto bohairico reperti di quelle antiche epoche. “Impressioni” che ho voluto così riassumere, sintetizzare, cercando ovviamente di dare delle possibili risposte, anche se queste – giova rammentare – restano pur sempre sic et simpliciter mere ipotesi.
[1] Trattasi del Grande Inno ad Aton rinvenuto sulla Tomba di Eye ad Akhetaton (Tell el Amarna) a fine ottocento (cfr. N. G. de Davies: The Rock Tombs of el Amarna, London 1908).
[2]Nel merito il mio pensiero è esposto in guisa più esauriente in uno scritto del 1997: The religion of Amarna and the monotheism of Israelan only one creed? – (www.geroglifici.it).
3 Esistono pareri discordi circa la esatta datazione del regno di Amenofi IV. Herik Hornung ritiene probabile il periodo compreso tra il 1364 e 1347 (Untersuchungen zur Chronologie und Geschischte des Neuen Reiches, Wiesbaden DBR, 1964). Il sovrano salì al trono con l’appellativo di Nefer-Cheperu-Ra “perfette le incarnazioni di Ra”. Nella lingua accadico-babilonese (caratteri cuneiformi) fu chiamato Nafuria od anche Napkhururiya.
4 In epoca amarniana il culto dei morti, una delle prerogative fondamentali della religione egizia, fu fortemente ridimensionato.
[5] I genitori sarebbero Yuya, che taluni ricercatori addirittura identificano nel Giuseppe biblico (Arthur Weigall: The life and Times of Akhenaten, London 1910-1923) e Tuya. Il nome Yuya – trasl. Yw-j3 che appare sul sarcofago della sua tomba sta a significare Yu (Giuseppe?) protetto da Ya, diminutivo di Yhwh come El lo è di Elhouin. Da tener presente che la maggior parte dei nomi egizi consistono in una doppia composizione del nome vero e proprio – sovente in forma abbreviata – e quello della divinità protettrice. Ma YH (j3) è quasi certamente parte del tetragramma YHWH i.e. il Dio degli ebrei (all’epoca con ogni probabilità ancora una delle molteplici divinità del pantheon cananeo). Cfr. A. Osman: The Ebrew Pharahos of Egypt, Rochester VT – USA 2003.
[6] cfr. le Sacre Scritture parlano del rimpianto che ebbero durante l’esodo gli ebrei per la vita condotta in quelle fertili terre (Numeri 12,4).
[7] Attuali San-el-Hagar e Tell el-Rataba.
[8] In primis Sigmund Feud: Moses and Monotheism, New York NYS-USA 1939.
[9] Jahweh (tetragramma di YHWH) pare che fosse ab origine un dio minore delle tribù dei Medianiti, popolazioni stanziate nel Sinai.
[10] Queste parole furono riportate e scritte verosimilmente in epoce di molto successive ai fatti descritti, probabilmente intorno al V, VI sec. BCE, forse all’epoca delle ben note deportazioni in Mesopotamia. Esse però si rifanno certamente a tradizioni orali tramandate nel tempo, com’era d’uso a quell’epoca.
[11] Eloah id est Dio designa la divinità in senso lato, anche Mercurio è un eloah, eloah Mercurio – il dio Mercurio. Il valore semantico della parola esprime il concetto di un essere superiore a tutti che soprassiede al mondo immanente e trascendente all’untempo. Il vero dio degli ebrei, cioè quell’essere che identifica esclusivamente quel dio, il Dio del Popolo Eletto, ha un suo nome esclusivo ed è il tetragramma YHWH (rammento che la lingua semitica occidentale si basa su meccanismi consonantici).
[12] Titolo coniato da E.A. Wallis Budge (cfr. The book of the dead ”The Chapters of Coming Forth by day” by E.A.W. Budge – London 1898).
[13] Disegni caratteristici che venivano posti in genere agli inizi di ciascun capitolo.
[14] Lepsius, C.R., Das todtenbuch der Ägypter nach dem hieroglyphischen papyrus in Turin mit einem vorworte zum ersten male, G. Wigand, Leipzig, 1842
[15] Il cuore, secondo la concezione del mondo antico sino alla tarda romanità ed anche oltre, era sede del pensiero, dei sentimenti, dell’etica di ciascun uomo.
[16] Le due polarità del post-mortem erano la vita eterna ed il nulla.
[17] Cfr. sul mio sito web www.geroglifici.it l’intera traduzione da me fatta nel 2006, con relativo commento sintattico-grammaticale, del Capitolo CXXV del Libro dei Morti tratta dal Papiro di Nu.
[18] In realtà Jahweh si manifestò con il nome di El Shaddaj (Esodo 6,3).
[19] Cfr. Mario Menichetti: Il Papiro di Leida, ovvero Dio Uno e Trino. Duat Edizioni, 2004.
[20] C’è da sottolineare che, al contrario della religione greca e romana ove le divinità erano ciascuna delle entità ben definite (tranne s’intende il cosidetto ellenismo egizio), la religione egizia è stata sempre permeata dal fenomeno del sincretismo. Così ad esempio il dio Sokar di Menfi si identifica con Ptah ed in epoca tarda anche con il dio dei Morti e della Resurrezione Osiride. Ra e Amun sono anche un tuttuno in Amun-Ra, Ra e Horus si riscontrano in Ra-Harakhtj, la dea Sekhmet è anche Hathor ma talvolta anche Bastet ecc. Potrei citare un’inifinità di analogie che finiscono quasi per creare un disorientamento a chi intenda approfondire i principi di questa religione veramente sui generis. E’ religione politeista la egizia? Si e no al contempo. E’ sì se se si fa esplicito riferimento ad una determinata divinità, è no se la si analizza in un contesto generale ove vi è de facto una concezione monoteistica del divino. Si immagini il pantheon egizio come un brillante a forma sferica che evidenzia tante sfaccettature ognuna delle quali estrinseca il divino per il tramite esteriore di una cultualità ben definita, ma – al reddere ad rationem – il diamante è unico, i.e. Dio è Dio.
[21] Arpocrate viene effigiato con le dita della mano poste sulle labbra a suggellare appunto il concetto del silenzio.
[22] L’iconografia di Apis è quella del toro fecondatore.
[23] Contra, diversi autori parlano di origine esclusivamente menfita