La celebre processione del venerdì di Pasqua di Gubbio, oltre ai ben noti canti del Cristo Morto, ha un’altra peculiare caratteristica, quella del familiare suono della battistrangola. Non sto quì ad illustrare l’iter di questa processione perché trattasi di funzione religiosa estremamente sentita da ogni eugubino e quindi sarebbe cosa superflua raccontarne la sua dinamica. Il suono di questo stranissimo strumento, unitamente alle ben note lamentazioni, una volta l’anno riempie le strade e le piazze di Gubbio evocando antichissime tradizioni che si perdono nel tempo. Ed è proprio di ciò che intendo parlare e cioè analizzare a ritroso nel tempo le origini di questo misterioso, oserei dire emblematico, strumento. Sembra strano eppure la battistrangola trae origine senza ombra di dubbio dal sistro egizio ed in queste brevi note ne traccerò la storia. Anzitutto cos’è il sistro egizio ed a che cosa serviva presso quell’antica civiltà [1]. Questo strumento aveva molteplici forme ed in genere era costituito da strutture metalliche di varia specie e dimensione aventi tutte un’unica fondamentale componente, delle lamine metalliche munite di fori che scorrevano lungo due o più assi trasversali, il tutto in un telaio anch’esso di metallo. Detto telaio aveva poi un’impugnatura in metallo od in legno di varia lunghezza che consentiva alle suonatrici di scuoterlo trasversalmente in genere durante le funzioni religiose ed in particolare in occasione delle processioni rituali. Il suono così provocato dallo scuotimento di questo strumento, unitamente al canto delle lamentatici, offriva un impatto suggestivo e misterioso al pari della processione del Cristo Morto. Come si rileva nella figura sottostante la forma del telaio nonché l’impugnatura rammentano la famosa croce ansata egizia, simbolo della vita (ankh).
Questa similitudine non era fortuita bensì aveva lo scopo di far estrinsecare in musica il significato profondamente magico della vita. Il sistro poteva però essere utilizzato anche per semplice diletto in occasione ad esempio di feste o particolari ricorrenze. [2] Ad onor di verità, secondo alcuni studiosi, lo strumento probabilmente fu importato in Egitto dall’Anatolia essendo stato rinvenuto colà, ad Horoztepe, un reperto in bronzo di epoca ittita risalente al III millennio BCE. Comunque al di là di tali speculazioni di carattere storico-archeologico resta fuor di dubbio che la sua grande diffusione avvenne nella terra dei faraoni e pertanto a buon diritto può chiamarsi strumento egizio.
London – The British Museum
Nella iconografia a noi pervenuta esso figura prerogativa della dea Hathor [3], in età arcaica rappresentata come una vacca, successivamente da una figura femminile con il capo coperto dalle corna e dal disco solare, dea della sensualità, della musica e della danza. Il culto di questa divinità si accentrò massimamente a Dendera (alias Dendara) ove in questa località trovasi tuttora in ottimo stato di conservazione un tempio a lei dedicato. In occasione di determinate cerimonie che avvenivano durante l’anno, si formavano delle processioni rituali ove le sacerdotesse della dea portavano questo particolare strumento utilizzandolo come in precedenza accennato unitamente alle lamentazioni delle lamentatrici. La religione egizia riconobbe nella dea Hathor l’inventore dello strumento a lei sacro, essendo appunto protettrice della musica e della danza oltre che dea della bellezza (prerogativa acquisita poi dai greci nella cipriota Afrodite). Per mera curiosità ricordo tra i tantissimi, non basterebbe forse una pagina intera per elencarli tutti, alcuni titoli riconosciuti a questa divinità del pantheon egizio: “Signora del Sicomoro del Sud” a Menti, “Signora dell’Occidente”, i.e. del Regno dei Morti, “Signora del Paese di Punt (Corno d’Africa), del Sinai e di Byblos”, Signora del Turchese (mefekat), la Graziosa (Jmayt), Signora della Vulva, invocata “perché procurasse un focolare alla vergine ed uno sposo alla vedova” ecc. ecc. Un ruolo primario e fondamentale attribuito, per il tramite di questa divinità, alla donna fulcro ed elemento stabilizzatore tendente al bene definitivo dell’umanità. In epoca tolemaica e romana si assiste ad un lento processo di sincretismo con la dea Iside per cui alcune prerogative della signora del Turchese finirono per essere acquisite dalla Signora della Magìa (Iside)[4]. In pratica si assiste direi ad una vera e propria pseudo-confusione, sia consentito questo termine poco ortodosso ma efficace, tra i requisiti della dea Hathor e quelli di Iside. Quest’ultima, ad esempio, la si vede effigiata in epoca tarda con le corna ed il disco solare, attributi un tempo esclusivi della dea Hathor (Iside infatti solitamente reca sul capo il segno egizio del suo nome), apparendo inoltre in alcune iconografie con il sistro nella mano. Da quì il termine improprio attribuito alla dea Iside di “colei che inventò il sistro”. Fatte tutte queste premesse chiarificatrici della situazione storica al tempo dei romani e nel precedente periodo tolemaico, va ora sottolineato che il culto di Iside fu fortissimo in Grecia ed a Roma, al punto tale che rischiò di soppiantare addirittura il nascente cristianesimo. Interminabili pellegrinaggi furono compiuti dai romani e greci a Philae, tempio dedicato ad Iside, nel II e III sec. Epoche queste in cui l’Egitto, al contrario, fu oramai pressoché del tutto cristianizzato tanto da avere il primato storico come primo paese al mondo totalmente cristianizzato. Questa strana situazione consistente nell’estrema diffusione del culto di Iside in Grecia ed a Roma e cristianizzazione in Egitto, dette luogo ad un fenomeno curioso, i pellegrini che andavano a Philae in Egitto non erano egiziani bensì quasi totalmente romani e greci. Ma continuiamo nella storia di avvicinamento e direi di saldatura tra il sistro e la battistrangola. Il culto di Iside, con tutte le sue funzioni dei cosìdetti “misteri” (rammento che Iside era la dea della Magia per antonomasia), per quanto detto, approdò “fisicamente” come naturale conseguenza a Roma ed in tante altre parti dell’impero ove furono eretti molteplici templi e furono celebrate tantissime funzioni in suo onore (cfr. la figura 2).
L’osservanza della liturgia esistente in Egitto fece sì che il sistro entrasse pertanto nella cultualità della nostra penisola diffondendosi rapidamente. Il cristianesimo poi, nell’acquisire alcune usanze delle liturgie preesistenti, finì anche con l’ereditare in certe località anche l’uso del sistro che divenne così connesso al nuovo “Credo”. Nel corso dei secoli il sistro subì poi, per naturale evoluzione delle cose, alcune piccole modifiche sia nella foggia che nei materiali impiegati realizzandosi così, a seconda della località, quella lenta metamorfosi che nel nostro caso ha dato origine alla battistrangola eugubina, il cui effetto sonoro è però sostanzialmente identico. Così questo strumento, sia se chiamato sistro all’ombra delle Piramidi o battistrangola all’ombra delle nostre chiese, evoca sempre con quel suono cadenzato e profondo, somigliante all’orologio della nostra vita, un senso di profonda spiritualità.
[1] L’etimo deriva dall’egiziano antico sesheshet o semplicemente sesh che significa appunto sistro. Questa parola potrebbe aver dato origine a quella greca seismòs che significa scuotere, sbattere da cui deriva poi il termine sisma = terremoto (etimo acquisito anche in area anglosassone con il verbo to shake = sbattere / agitare); contra il Rocci che parla di origine i.e. cfr. sejo = scuotere / agitare (Rocci: Voc. greco –i tal., pag. 1658).
[2] Si ritiene comunque che detto strumento fosse destinato prevalentemente a cerimonie religiose, in particolare funerarie.
[3] Parola che letteralmente significa la casa, il recinto di Horus (in egiziano antico Het-Hert / Het-heru).
[4] Questo strumento musicale per la verità compare nella iconografia talvolta anche in mano alla dea gatta Bastet.