Geroglifici: uno specchio tra terra e cielo

Quando furono scoperte le  scritture geroglifiche egizie circa duecento anni orsono, unitamente alle derivate jeratiche e demotiche, gli storici  si trovarono di fronte ad una scoperta grandissima.

Un evento storico tra i più significativi nel campo culturale, in quanto attraverso di esso noi abbiamo attinto una infinità di notizie, di informazioni sull’Egitto Antico  che altrimenti  si sarebbero perse per sempre.

Sino ad allora – fine settecento – le notizie su questa antichissima civiltà erano molto scarse, direi di seconda mano, nel senso cioè che trattavasi per lo più di informazioni attinte da scrittori e cronisti stranieri, ad esempio greci, latini e poi le Sacre Scritture.

Notizie quindi frammentarie, sovente imprecise come si sarà poi dimostrato ed anche di parte, le Sacre Scritture docent.

Al reddere ad rationem si può pertanto affermare che questa scoperta ha aperto uno squarcio di luce nel passato remoto non solo dell’Egitto ma di tutti noi. Un evento che ha influito in maniera significativa e direi fondamentale a  far conoscere nella sua “intierezza” ed “ampiezza” questa grande civiltà.

Tra le quattro tipologie di scritture egiziane antiche – geroglifiche,  jeratiche,  demotiche e  copte – certamente la più importante, le più famosa ed anche le più antica è la geroglifica. Quest’ultima presenta delle caratteristiche, delle peculiarità,  che la rendono sotto certi aspetti unica nell’ambito della storia della scrittura.

La caratteristica più saliente, dalla quale  si dipanano poi tutte le altre, è che tale tipo di scrittura  era utilizzato esclusivamente per finalità sacre. Gli egizi la chiamavano medu-necer (mdw-ntr), cioè parola di Dio. Si noti bene: ho specificato al singolare, non al plurale. Nella parte conclusiva  del presente scritto ne spiegherò il perché.

I geroglifici quindi eranosic et simpliciter emanazione divina che gli scribi attingevano sotto ispirazione,  per il tramite della casta sacerdotale, la mandataria in terra del dio Thoth, il dio della sapienza e della scrittura.

Le scritture, in ogni epoca e luogo, hanno avuto sempre la caratteristica del “multiuso”, cioè duttilità ad esser utilizzate per qualsiasi funzione, sacra o profana che fosse. I geroglifici no.

Per comprendere bene questo concetto basti fare il confronto ad esempio con i Vangeli, anch’essi Sacre Scritture, “verbo del Signore”.

Nel caso dei Vangeli  (ma la cosa ovviamente potrebbe valere per qualsiasi altra sacra scrittura, ad esempio il Corano),  la sacralità di questi  è insita nel concetto che essi intendono esprimere, nel loro profondo significato, non nella scrittura di per se stessa.

Infatti i caratteri di scrittura utilizzati per il Vangelo sono in pratica gli stessi che vengono usati ad esempio per scrivere  le pubblicazioni pornografiche.

Al contrario la sacralità dei geroglifici è proprio insita nella loro grafìa, nei segni che la esprimono  e tale peculiarità li rende pertanto unici nella storia; val bene pertanto il detto Digitus Dei est hic.

Un’altra caratteristica delle scritture geroglifiche, che chiamerei un record vero e proprio riconosciuto dai grafologi, è il record dell’estetica intesa  non nel concetto strettamente filosofico della parola, bensì come semplice pura bellezza. Ciò in virtù della estrema accuratezza con cui tale scrittura veniva realizzata, sia se scolpita nella pietra (da qui la parola greca in epoca tolemaica jerosglyphossignificante sacralità scolpita nella pietra) e sia se affrescata, in genere nelle tombe, sulle pareti con colori  vari, molto belli, sovente ancora in alcuni casi ben conservati.

Ma tale “primato” le è riconosciuto soprattutto in virtù della enorme quantità dei segni che rappresentano tutto lo scibile umano, l’universo intero.

La cosiddetta tipologia o scrittura tolemaica ne fa ascendere il numero a circa settemila tra animali, piante, persone, pianeti ecc.

Anche in tal caso questa peculiarità–record è dovuta al requisito della sacralità. La parola di Dio, la emanazione  divina doveva estrinsecarsi in ogni dove, non poteva di certo esser ristretta a poche immagini, perché il divino e l’universo  dovevano in pratica tra di loro interagire come uno specchio, lo specchio della vita.

Un’altra peculiarità dei geroglifici, anch’essa da considerarsi vero e proprio primato, era quello che potrebbe definirsi il record della longevità.  In tutto l’arco della loro lunghissima esistenza, circa tremila anni – i primi rinvenimenti risalgono al tremila BCE circa, gli ultimi a fine quarto secolo della nostra era – queste scritture non hanno subito in pratica nessuna apprezzabile modifica nei segni. Ciò lo si può riscontrare agevolmente mettendo a confronto, ad esempio,  la sostanziale identità grafica tra gli ultimi rinvenimenti  esistenti nel tempio di Philae ad Aswan (394 AD) con il frammento di diorite nero della Pietra di Palermo che è uno dei reperti in assoluto più antichi (2500-2600 BCE – V Dinastia), reperti tra di loro distanziati da tre millenni.

Per comprendere bene questo concetto, questa caratteristica che rende unici i geroglifici,  bisogna rifarsi un attimo alla storia della scrittura.

In ogni epoca e luogo le scritture sono sorte ab initio come ideogrammi, ove i segni esprimono il concetto insito nell’icona  stessa. Poi, a causa dell’indole connaturata nell’uomo di modificar le cose,   man mano tutte le scritture hanno subito una lenta evoluzione, perdendo lentamente quasi tutte il requisito d’immagine per acquisire quello di fonogramma, ove il segno esprime un concetto avulso dal medesimo (la paleografia studia appunto queste evoluzioni).

Quando leggo la lettera A non mi pongo minimamente il problema del che cosa rappresenti tale segno, so che è un fonema, una vocale, punto e basta. Analoga considerazione vale per la lettera greca alfa, prima lettera di quell’alfabeto.

Se però ruoto a sinistra di 90° il segno compaiono le corna e la testa dell’aleph semitico, il toro a dimostrazione della evoluzione che la scrittura ha subito nel tempo, una lenta metamorfosi da ideogramma a fonogramma.

Se prendiamo in considerazione le scritture sumere e akkadiche, coeve entrambe in tutto l’arco della loro esistenza delle geroglifiche,  ci accorgiamo a prima vista,  osservandone i segni, che le akkadiche (i caratteri cuneiformi) derivano sostanzialmente dalle sumere per caratteristica del tratto. Ci si rende però conto che le sumere erano degli ideogrammi, seppur estremamente grossolani nell’aspetto, mentre le akkadiche son diventate dei bastoncini che non hanno più rispondenza alcuna con la realtà delle cose.

Analoga considerazione vale anche per quelle scritture – una minoranza –  che hanno nel tempo conservato il requisito di ideogramma. Un esempio sono le scritture del mandarino cinese che sono ideogrammi.

Orbene se noi confrontiamo  questi segni con il cinese antico, ad esempio della dinastia Chang, ca. 1100-1200 BCE, ci rendiamo conto che questi risultano profondamente diversi nell’aspetto grafico dagli attuali caratteri. Giova altresì rammentare che la evoluzione che portò quasi tutte le scritture a trasformarsi da ideogrammi in fonogrammi la ebbero anche le scritture geroglifiche.

La grande intuizione che ebbe lo Champollion che riuscì a battere, per così dire, sul filo di lana gli altri studiosi che si affannarono ad inizio ottocento nell’arrivare per primi alla scoperta delle scritture egiziane antiche, i vari Åkerblad, De Sacy, Young ecc., fu quella di aver compreso che tutti quei segni solo in casi marginali assumevano valenza di ideogramma, mentre nella maggior parte dei casi essi rappresentano dei fonogrammi, ne più né meno come le nostre scritture.

Quindi segni che nel più dei casi nulla hanno a che vedere con le immagini rappresentate.

La naturale evoluzione di ogni lingua, egiziana compresa, che si evidenzia  appunto nell’aspetto sintattico – grammaticale soggetto a continue evoluzioni, non ha però scalfito in nulla   ciò che io   definirei un vero e proprio  immobilismo grafico, da ricercarsi come detto nel requisito di sacralità dei segni.  Per il cosiddetto “ordine primigenio”, “primordiale” della dea Maat, la dea dell’ordine e della giustizia, tutto ciò che apparteneva alla sfera dello jeratico, del sacro, doveva restare immobile, immutabile nel tempo per l’eternità.

La parola di Dio, insita non nel concetto ma nella grafia del segno, doveva avere il requisito della atemporalità, pura trascendenza. Non poteva questa sacralità subire la evoluzione  insita nell’indole umana del trasformare nel tempo gli elementi del mondo tangibile. Se dovessi fare un paragone calzante io accomunerei le scritture geroglifiche alle icone del mondo slavo. Queste immagini non rappresentano  mai nello sfondo l’azzurro del cielo,  elemento tangibile delle cose, bensì sempre in esse appare uno sfondo dorato o argentato, perché sono e devono restare al di fuori del tempo,  pura  trascendenza.

Ma le sorprese sui geroglifici non finiscono qui. Un’altra peculiarità le rende diverse dalle altre scritture e cioè il sistema di lettura delle stesse, criterio che de factoindirettamente le veniva imposto anch’esso dal requisito di sacralità, per cui al reddere ad rationem non è azzardato affermare che trattasi di scritture ove la sacralità ne impone un delicato, complesso meccanismo di lettura.

Data la complessità della materia che basa le sue regole  di lettura su criteri  profondamente diversi dal sistema in uso ad esempio nelle  nostre scritture CV (i.e. consonantico – vocaliche), nel presente scritto sono costretto ob torto collo a non poter entrare in dettagli che presupporrebbero una idonea conoscenza da parte del lettore di tali problematiche. Mi limiterò pertanto semplicemente a dare qualche “superficialissima idea del problema”.

Le scritture CV, come la nostra, si fondano sul meccanismo di lettura basato sul criterio del rebus, in pratica sistemando in maniera idonea quella ventina di caratteri dell’alfabeto, che tutti noi sin dalla prima adolescenza conosciamo, il lettore o chi scrive sarà in grado di poter comprendere od esprimere qualsiasi concetto.

La scrittura egiziana antica al contrario, tranne la copta di derivazione greca, quindi CV, si basa su meccanismi consonantici. I segni che noi vediamo esprimono cioè solo i suoni delle consonanti, le vocali non esistono nella scrittura. Per questo motivo non  siamo in grado di poter leggere, pronunciare questi segni e se un egittologo idealmente volesse dialogare con un egiziano antico lo potrebbe fare solo e soltanto per iscritto.

Quando sentiamo o leggiamo parole come Akhenaton, Ramses, Nefertiti, Nefertari e chi più ne ha più ne metta, trattasi di convenzioni create artificialmente dagli egittologi onde vocalizzare un qualcosa che altrimenti non potrebbe esser letto. Ciò premesso  l’uomo egiziano antico onde poter leggere tutta quella copiosa mole di segni chiamati bilitteri e trilitteri (a seconda del numero di consonanti espresse in ciascuno di essi) e quindi interpretarli in maniera corretta era costretto ad utilizzare dei segni particolari, tecnicamente chiamati complementi fonetici e determinativi, che servivano solo d’appoggio, di aiuto alla lettura, cioè segni muti non oggetto di fonetizzazione.

Attraverso di essi il lettore riusciva a capire e vocalizzare i segni geroglifici, jeratici e demotici. I determinativi erano una specie di surrogato chiarificatore della vocalizzazione mentre i complementi fonetici servivano per individuare bene quella miriade di segni bi-tri consonantici. Questi ultimi, cioè i complementi fonetici, erano segni monolitteri cioè esprimenti idealmente un solo suono consonantico ed erano solo ventiquattro.

In pratica una specie di alfabeto seppur privo delle vocali, anzi per esser precisi trattasi del primo alfabeto al mondo anche se, strana constatazione, gli egizi non se ne servirono per l’uso a noi noto del rebus anzi accennato, bensì per consentire la lettura di tutte quelle migliaia di segni esistenti nell’empireo della scrittura egizia.

A questo punto qualcuno potrebbe giustamente chiedersi: perché  non restringere la lettura ai soli 24 segni monolitteri mercé il meccanismo del rebus – seppur carente delle vocali – eliminando così la problematica connessa alla individuazione dei tantissimi segni concepiti in questa scrittura? E qui torna in auge il concetto della sacralità che de facto impone tale sistema di scrittura. Sarebbe stato inconcepibile a che la parola di Dio potesse esser costretta  a restringersi, ergo ad esprimersi  in così pochi segni, dai circa settemila a soli ventiquattro. Impensabile, una vera e propria eresia in quanto il divino doveva, come accennato, abbracciare l’intero universo, tutto il mondo sensibile ed extra sensibile.

Va però aggiunta nel merito un’altra curiosa constatazione e cioè il fatto che gli egizi impararono talmente bene questo arcano, per noi inconcepibile e complesso meccanismo di lettura, al punto tale che se ne servirono in pratica anche nella scrittura  demotica e jeratica, scritture che – tranne la jeratica in epoca tolemaica e romana – servivano per usi estranei alla sacralità.

Non solo, ma tali meccanismi, con diverse varianti, finirono per influenzare poi tutte le scritture semitiche dell’oriente antico sino a lasciar retaggi in quella  araba. Prima di por termine al presente scritto resta da aggiungere il “perché” i geroglifici son chiamati dagli egizi “Parola di Dio”.

Quesito legittimo scaturente infatti dall’assioma acquisito nell’uso comune di considerare la religione di quella civiltà basata – tranne l’epoca amarniana –  su di un pantheon di tutto rispetto.

Il termine forse più corretto sarebbe stato pertanto “parola degli dei”.

La risposta che in pratica scioglie l’enigma ce la da il Papiro di Leida, il Grande Inno ad Amun-Ra. Questo reperto rinvenuto agli inizi dell’ottocento, scritto in jeratico risalente al III-IV sec. BCE  (epoca tolemaica) e  rifacentesi a sua volta ad un incipit perduto del XIII secolo BCE ca. (epoca ramesside), tra l’altro dice testualmente: 3 pw ntrw nbw – jmn r c ptḥ  nn 2nw.sn – jmn rn.f m jmn – ntf r c m ḥrdt.f ptḥ (trasl. e trad. di chi ha scritto queste note).

La traduzione letterale è:tutti gli dei sono tre, Amun, Ra e Ptah, non vi è un secondo (cioè non esistono altre divinità all’infuori di queste). Egli (al singolare – id est Dio) è in Amun il dio dei cieli, il nascosto (jmn è verbo trilittero che significa “nascondere” / “occultare), ma al contempo anche in Ra il Dio visibile, il sole (aspetto  immanente delle cose) e nel corpo di Ptah.

Divinità questa  che ab initio plasmò il mondo sensibile ed il mondo extrasensibile, ergo anche Amun e Ra.

In precedenza esistevano ab aeterno le cosiddette acque primordiali (corrispondenti alla Chora platonica del Timeo) – chiamate nu – che presero forma per lo appunto attraverso Ptah.

E’ bene rammentare che il grande ateniese  attinse i fondamenti della cosmogonia dagli egizi. Quindi Ptah che ha plasmato il dio dei cieli e il dio tangibile sulla terra, media queste due forze del mondo sensibile e del mondo extrasensibile.

Un Dio pertanto uno e trino all’un tempo,  principio profondamente diverso, sotto  l’aspetto teologico,  dalla trimurti indiana – Brahma, Shjva e Višnu – che vede tre divinità ben distinte tra di loro.

Questa concezione di unicità e trinità al contempo risale, giova ricordare, ad almeno oltre mille  anni prima di Cristo.

Ma allora che cosa sono le altre divinità? Non sono altro che tanti aspetti di una stessa cosa. Si immagini un brillante a forma sferica fatto di tante sfaccettature; ognuna di queste è una divinità ma alla resa dei conti il brillante è unico. Sono tanti aspetti  di uno stesso Dio uno e trino che si manifestano in molteplici modi. Giova rammentare che il fenomeno del sincretismo era direi alla base della religione egizia, Amun-Ra, Ra-Arakhtj, Hathor-Isis, Sekhmet che diventa Hathor ecc.. Il Bruno comprese l’essenza e l’importanza di questa genitura scaturente dalla religione egizia, una convinzione che gli costò la vita quell’ormai  lontano 17 febbraio del 1600.