La spiritualità egizia ha caratterizzato questa antichissima civiltà in maniera straordinaria senza pari nella storia. Plutarco afferma nel De Isis et Osiris che sotto una ritualità dalle forme simboliche semplici in realtà si cela una concettualità profonda e complessa basata su principi etico-morali di altissimo contenuto ed io aggiungerei “eterni”. Il presente scritto riflette una ricerca sul concetto del divino, elemento fondamentale di tale spiritualità. Preliminarmente si rende necessario puntualizzare che nell’arco di circa quattro millenni la religione egizia, man mano che i centri del culto si spostavano dalle città sacre di Ermopoli ed Eliopoli al culto del dio tebano Amun nell’Alto Egitto, ha subito sensibili modifiche. Non è possibile pertanto esprimere una valutazione unica su tale tematica. La presente ricerca tratta del concetto del divino che si ebbe nell’epoca in cui fu prevalente il culto ammoniano, all’incirca dal primo periodo intermedio all’epoca saidica ed oltre. Nel dizionario egizio non esiste la parola “religione”, almeno nel valore semantico da noi attribuito a questa. Presso le religioni monoteiste ed in genere nella maggior parte delle altre forme di religione, vi è separazione netta tra mondo trascendente – alias il regno dei cieli – ed il mondo immanente, ove l’uomo occupa una posizione di preminenza e, limitatamente alle religioni monoteiste, è creatura a somiglianza di Dio. Si rende pertanto necessario, con la parola “religione”, enucleare e puntualizzare quegli aspetti ontologici e cultuali che caratterizzano una determinata sfera dell’essere. Nel mondo egizio esisteva al contrario una particolare forma di sincretismo tra mondo sensibile e mondo extra-sensibile che rendeva inutile l’uso di questo vocabolo perché la “religione” poteva definirsi tutto e niente al tempo stesso. Questa forma di sincretismo era dovuta alla presenza dello spirito divino (inteso questo in senso lato)in ogni componente dell’universo che era formato pertanto di materia e spirito. I vari elementi di esso, in base ad una speciale graduatoria, andavano dalla materia inerte, su su fino allo spirito puro. L’uomo occupava una posizione chiamerei intermedia essendo costituito di materia e spirito (ba) associato alla forza vitale del ka. Da quì la indissolvibilità delle varie componenti dell’uomo prima e dopo la morte. Esso restava un’unica entità, sempre. L’uomo pertanto nella civiltà egizia non assumeva una posizione di rilievo rispetto alle altre componenti dell’universo. Almeno nella fase iniziale tali principi finiscono quasi coll’identificarsi nel concetto cosmogonico cartesiano dell’emissione da parte di Dio di particolari corpuscoli aventi lo scopo di innescare i movimenti che regolano le leggi della fisica. La funzione divina secondo il pensiero cartesiano era però ristretta alla sola fase di innesco. Al contrario nella cosmogonia egizia questa specie di pseudo-particelle (lo spirito divino) permeava costantemente ogni elemento dell’universo. Alla resa dei conti si può pertanto affermare che la divinità e l’universo, Dio e l’universo finiscono quasi coll’identificarsi. Una visione fondamentalmente panteistica molto vicina al concetto spinoziano della natura e che fu abbastanza in voga tra i gentili in epoca rinascimentale a partire dal Ficino ma che ebbe, come massimo assertore il Bruno. Il filosofo nolano ne parla nel De Magia, nel De Ars Magica ma soprattutto nel grande trattato di mnemotecnica De Umbris Idearum, nel quale tra l’altro, auspicò il ritorno della religione egizia quale madre di tutte le religioni e che gli valse il rogo per eresia (per un approfondimento sulla spiritualità egizia cfr. J. Perenne: Histoire de la Civilisation de l’Égypte Ancienne, Neuchâtel 1962). Ma qual era il concetto del divino in seno alla società dell’Antico Egitto? Per comprenderne il significato mi rifaccio inizialmente ad una parola: geroglifico, la forma di scrittura usata nell’antico Egitto per finalità esclusivamente sacre. La parola egizia che identifica i geroglifici è espressa da due vocaboli: meDu-nTr (pron. convenzionale Megiu-necer)ove la prima ha significato di “parole” nella forma del plurale e la seconda di “Dio” al singolare, ergo “parole di Dio”, con valore semantico sostanzialmente identico all’ipse dixit aristotelico e della scolastica. L’uso del singolare per indicare la divinità sarebbe però in contrasto con la forma di religione esistente all’epoca basata sul politeismo, tranne la breve parentesi amarniana. Qualche studioso (cfr. in particolare E.A.W. Budge: An Egyptian Hieroglyphic Dictionary) ha ritenuto che la forma singolare allude al dio Thoth, il dio depositario della scrittura, altri sosterrebbero che il singolare va riferito alla specifica divinità che ha emanato un determinato scritto. La terza strada, ritengo la più plausibile per quanto si dirà, identifica il divino e la sua scrittura, con un solo Dio. In seno alla società egizia la jeraticità e tutte le problematiche ad essa connesse erano sovente caratterizzate da innumerevoli forme di sincretismo (es. Re-Harakhti, Amun-Ra ecc.) esistenti tra le varie divinità. Pertanto al reddere ad rationem non è azzardato affermare che gli egizi concepissero un unico Dio, una specie di demiurgo platonico, che estrinsecava le sue funzioni taumaturigiche e divine mercé tante “sfaccettature” per quanto grande era il pantheon egizio. Quindi un concetto di monoteismo ma del tutto particolare perché Dio era de facto concepito uno e trino all’un tempo. Questa affermazione ci è suffragata, anzi direi confermata, da un importante documento: il papiro di Leida scritto in jeratico., rinvenuto verso la metà del 1800 ed attualmente al Rijksmuseum di Leida conosciuto come “Il grande Inno ad Amun-Ra”. In esso, tra l’altro vi si legge: 3 pw nTrw nbw – jmn ra ptH nn 2nw.sn – jmn rn.f m jmn – ntf ra m Hr Dt.f ptH (traslitterazione dalla versione geroglifica di Zandee) e la cui versione italiana è: “Tutti gli dei sono tre: Amun, Ra e Ptah, non vi è un secondo, egli è in Amun l’invisibile, in Ra la luce ed in Ptah il corpo” (traduzione di chi ha redatto queste brevi note). La esegesi di tale scritto può così riassumersi: Tutti gli dei sono tre: Amun, Ra e Ptah, nessuno vi è oltre di loro; Egli (Dio al singolare) è presente nelle cose invisibili in Amun il dio del trascendente (rammento che il verbo jmn – 3ae-lit – in egiziano antico significa “nascondere”); egli (Dio) è presente nelle cose visibili in Ra (il dio sole ergo il dio dell’immanente); egli (Dio) è presente nel corpo di Ptah. Quest’ultima divinità ab initio plasmò il mondo, in precedenza l’universo era sotto forma di chaos che gli egizi chiamavano nun ed esisteva ab aeterno. Rammento che la cosmogonia egizia concepiva uno stato di plasmazione non di creazione dell’universo, al contrario delle religioni monoteiste. Tale cosmogonia è stata recepita da Platone allorché l’ateniese parla di acque primordiali, in uno stato confusionale chiamato chora, ante l’aggregazione nell’ordine delle cose compiuta dal demiurgo nell’Universo (cfr. Platone: Timèo). La figura di Ptah risulta essere di estremo interesse perché questa divinità, avendo plasmato il mondo fatto di cose visibili ed invisibili, media le due forze divine dell’extrasensibile (Amun il dio dei cieli, dell’invisibile) e del sensibile (Ra il dio dell’immanenza, delle cose visibili). La concezione teologica di Ptah si avvicina molto, addirittura si può affermare che collimi, con il concetto dello Spirito Santo nella religione cristiana. Lo Spirito Santo media il Dio dei Cieli (il Padre) invisibile ai mortali ed il Figlio dell’Uomo sulla terra. Questa weltanschauung dell’essere Dio Uno e Trino al contempo, risalente ad oltre un millennio a.C., è l’unica forma, come afferma lo Allen, di teologia affine al cristianesimo.